Cuore di tenebra di Joseph Conrad

Ritmico come i tamburi della foresta, il richiamo dell’ignoto ammalia i personaggi di questo romanzo breve di Joseph Conrad. Scritto nel 1899, quando l’autore aveva abbandonato ormai definitivamente la vita da marinaio per dedicarsi alla scrittura, Cuore di tenebra (Heart of darkness) sembra rifarsi al viaggio di Conrad in Congo e ai vari tipi di avventurieri che aveva incontrato durante le sue navigazioni.

Mentre Londra balugina in lontananza avvolta da una oscurità tetra, un gruppo di amici attende su un’imbarcazione che la marea del Tamigi inverta il suo flusso per poter attraversarne la foce e raggiungere il mare. Cala una notte buia e Marlow, uno dei cinque tra i quali sta il narratore, si lascia andare ai ricordi e inizia il racconto di una sua avventura nel cuore profondo dell’Africa, quando aveva abbandonato i mari per dedicarsi all’esplorazione del grande fiume che simile a un alligatore lo chiamava dalle carte geografiche. Marlow tenta di tutto per poter raggiungere quei luoghi ma solo l’influenza di una zia che vive nel Continente potrà concedergli di prendere servizio presso la Compagnia che gestisce i commerci in quell’area e farsi affidare la guida di un battello.

Fin dalle prime righe si avverte un senso di oppressione, il peso di un fato oscuro, l’irresistibile vocazione dell’uomo verso l’ignoto. Novello Ulisse, Marlow è spinto da una cieca sete di conoscenza e nemmeno l’inquietante visione delle due parche che filano nera lana all’ingresso della Compagnia, una giovane l’altra anziana, quest’ultima con un gatto in grembo e lo sguardo di chi sa che non vedrà tornare nessuno di quelli che sono partiti, lo trattiene da affrontare disagi di ogni tipo per prendere il comando del suo battello.

In un crescendo di tensione, in un continuo evocare la tenebra e il mistero inconoscibile della foresta, Cuore di tenebra è il racconto di un’ossessione alla quale si può sacrificare tutto, anche la propria anima.

In fondo al fiume, nell’ultima stazione, sta Kurtz, il migliore degli agenti della Compagnia, ammirato e odiato allo stesso tempo per la sua eloquenza e la sua bravura nel procurare avorio. Simile a un mito o a una leggenda, il suo nome si ripete sempre più spesso e assume per Marlow la consistenza di una voce, un canto di sirena da cui si sente irrimediabilmente attratto e allo stesso tempo respinto.

Il racconto è incalzante, costellato da diversi episodi che, attraverso gli occhi di Marlow, ci presentano la cupidigia e la grettezza dell’uomo bianco, venuto da predone a strappare alla foresta e agli indigeni i loro beni e i loro segreti. Schiavi, nemici, ribelli: Marlow è disgustato dal trattamento riservato a quegli uomini, spesso sofferenti, indigenti, sottomessi all’invasore. Di contro ci sono le tribù ancora libere, che oppongono una resistenza silenziosa e hanno trovato in Kurtz un idolo da cui sono terrorizzati e ammaliati allo stesso tempo.

Il personaggio di Kurtz domina il romanzo: prima solo presenza, poi corpo per quanto consumato, ridotto a una voce ancora potente, ancora in grado di dare ordini, di gridare l’orrore. L’attesa spasmodica di Marlow di poterlo finalmente ascoltare, quell’uomo la cui eloquenza ha conquistato europei e indigeni, si scontra con la realtà di uno spirito che ha visto se stesso e ne ha provato orrore, per la propria cupidigia, per la propria bramosia di potere, per la violenza alle quali non sa opporsi ma sempre si abbandona.

Due figure di donna si stagliano antitetiche tra loro alla fine del racconto, in parallelismo con le due donne vestite di nero. Una è una fiera indigena, figura oscura, voce della foresta, che sembra chiamare a sé Kurtz, portato sul battello per riportarlo alla civiltà. Un richiamo a cui lui cede, per poi essere di nuovo catturato da Marlow. L’altra è la fidanzata che a lungo lo ha aspettato in patria e che ora indossa le gramaglie di una vedovanza affranta. Quanto l’altra era scura e irrazionale, tanto questa è luminosa, i capelli biondi accesi dagli ultimi raggi del sole calante, piena di fede nell’uomo che ancora ama e che ritiene il migliore tra tutti. Entrambe le figure tendono le braccia a implorare qualcosa da quest’uomo senza cuore. Il suo infatti glielo ha strappato la foresta, con i suoi silenzi di tenebra e i misteri che la mente umana non potrà mai sondare.

Sbarcare in una palude, marciare nei boschi e sentire in qualche avamposto dell’interno la natura selvaggia, assolutamente selvaggia, chiudersi intorno a lui – tutta quella vita misteriosa che si agita nella foresta, nelle giungle, nel cuore dei primitivi. Non esiste iniziazione a questi misteri. È costretto a vivere nel cuore dell’incomprensibile, che è anche detestabile. E ha un fascino, che comincia ad agire su di lui. Il fascino dell’orrore, capite – e immaginate i rimpianti sempre più intensi, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la resa, l’odio. (pagina 10)
L’ombra del Kurtz di un tempo frequentava il capezzale del vuoto ciarlatano, destinato a sepoltura imminente nel terriccio della terra primordiale. Ma l’amore demoniaco e l’odio irrazionale dei misteri che aveva penetrato si stavano battendo per impadronirsi di quell’anima sazia di emozioni primitive, avida di fama menzognera, di distinzione fasulla, di tutte le apparenze del successo e del potere. (pagina 99)

Finestre alte di Philip Larkin

Philip Larkin (1922-1985) è uno dei maggiori poeti inglesi del secondo Novecento, molto apprezzato in patria e poco conosciuto da noi. Per vent’anni bibliotecario, ha scritto romanzi, recensioni musicali e soprattutto poesia.

Insieme a Thom Gunn e a Ted Hughes (marito di Sylvia Plath) è una delle figure più significative del Movement inglese degli anni ’50-’60. I poeti del Movement, con le loro specifiche differenze, si prefiggevano di contrapporsi alla poesia politicamente o filosoficamente impegnata degli anni 1930, al neoromanticismo del dopoguerra e alla poesia metaforica di Dylan Thomas.

Finestre alte è una raccolta di sue poesie con testo a fronte (traduzione di Enrico Testa) uscito per la bianca di Einaudi nel 2002.

La lingua è pulita, evita le metafore, sceglie termini e oggetti comuni. È possibile apprezzarla in originale anche con un livello non troppo alto di conoscenza della lingua inglese, magari appoggiandosi alla traduzione a fronte. In questo modo si mantengono il senso del ritmo, il suono, le allitterazioni e altre figure retoriche che altrimenti andrebbero perse.

Di questa sua raccolta mi ha colpito il modo spesso ironico, sarcastico o dissacrante con cui inizia i suoi componimenti, per poi chiuderli con una malinconica grazia, in un rovesciamento che rende ancora più efficace quello di cui ci vuole parlare.

Il poeta Larkin si pone come osservatore esterno della realtà più minuta, senza attribuirsi una posizione giudicante, anzi, spesso rivestendo i panni dell’antieroe, consapevole dei suoi difetti, della sua vita non vissuta a pieno.

Il tema della fine (della vita, della natura, del mondo) impregna la narrazione.

In Larkin tutto può farsi poesia: vecchi ubriaconi che giocano a carte, il lamento dell’erba tagliata, i soldi che non bastano mai, la luna o il sole, la città con i suoi palazzi, le alte finestre da cui osservare il mondo con sguardo ironico eppure partecipe.

Rather than workshop comes the thought of high windows:
The sun-comprehending glass,
And beyond it, the deep blue air, that shows
Nothing, and is nowhere, and is endless.

(da Finestre alte)

Come in ogni raccolta, mi sono appuntata i componimenti che più mi hanno colpito per poi tornare a leggerli, come è sempre bello fare con i versi che ci hanno illuminato, anche solo per un momento:

  • The Trees: anche gli alberi muoiono come noi e poi ricominciano daccapo, il loro segreto è custodito in anelli di accrescimento. Una poesia che ha per me un significato particolare, legato a un progetto di scrittura non ancora concluso.
  • High Windows: parte dall’invidia per i ragazzi che possono scopare senza preoccupazioni, cosa che lui ha sognato per tutta la vita, e arriva al pensiero delle alte finestre della sua casa, scaldate dal sole, e l’aria azzurra oltre di esse, che esiste e basta.
  • Friday Night in the Royal Station Hotel: la solitudine di un albergo di notte, luogo di esilio, in cui ogni particolare ci parla del nostro essere messi da parte rispetto al mondo.
  • The Old Fools: quando si muore ci si frantuma e i pezzi si disperdono, per sempre: è l’oblio. E poi i vecchi ricordano le persone per com’erano in un dato momento, cristallizzato nel tempo. E invece spesso non ci sono più e restano soli con i loro ricordi.
  • Going going: in questi versi Larkin anticipa l’ansia ecologica che pervade la nostra epoca. Ormai la fine del mondo è imminente. Pensava non lo riguardasse. E invece.
  • The card players: un esempio della vena goliardica di Larkin che si abbandona a immagini volgari e giochi di parole.
  • The building: la morte incombe e tutti siamo consapevoli che dobbiamo morire, forse non qui, forse non ora, ma alla fine.
  • Cut grass: anche in un campo di erba appena tagliata, nella luce bianca di giugno, incombe il senso tragico della morte.

Per quanto Larkin possa sembrare cupo, tra le sue righe ho trovato sempre un raggio di luce, per quanto esile, ma proprio per questo in grado di rischiarare le tenebre.

Casa desolata di Charles Dickens

Era dai tempi di Anna Karenina che non leggevo un romanzo così corposo, più di 900 pagine che possono atterrire ma che in realtà scorrono veloci tra personaggi vividi, colpi di scena e una trama principale che si articola in tante sotto trame, tutte condotte magistralmente dall’autore, in grado di tenere a bada un esercito di personaggi secondari e di aiutare il lettore a non perdersi in quello che potrebbe sembrare un labirinto.

Romanzo meno famoso di Charles Dickens – ma considerato uno dei suoi più riusciti – Casa desolata (Bleak house) prende l’avvio da una feroce critica al sistema giudiziario inglese. Il romanzo viene pubblicato a puntate tra il 1852 e il 1853 e fa riferimento alla situazione giuridica vigente prima delle riforme del 1842 e 1852.

Come spesso accade agli autori, l’innesco che sta loro più a cuore passa in secondo piano nello sviluppo del romanzo e quella che dovrebbe essere soprattutto un’invettiva contro un sistema di cui era stato vittima lo stesso Dickens si rivela una storia appassionante, addirittura il primo romanzo con un detective alla Sherlock Holmes, anche se farà la sua comparsa solo nella seconda parte dell’opera.

Il romanzo ruota attorno alla causa Jarndyce contro Jarndyce e alla figura di Esther Summerson, voce narrante in prima persona che si alterna a una terza onnisciente.

La causa Jarndyce contro Jarndyce si trascina da tempo immemorabile, tanto da essere nota anche al di fuori degli ambienti della Corte del Lord Cancelliere. I numerosi cavilli, rinvii, inghippi burocratici e tutte le lungaggini di una farraginosa amministrazione della giustizia, oltre a creare sacchi di documenti e impegnare quasi tutti gli avvocati di Londra, ha esasperato e portato alla rovina le numerose persone che ne sono state coinvolte, anche marginalmente.

L’ultimo Jarndyce, proprietario di Casa desolata, la ritiene talmente una condanna da disinteressarsene completamente e preferisce dedicarsi ad atti di pura generosità. Tra questi, diventare tutore di una giovanissima Esther e accogliere in casa due cugini, pupilli della Corte, Ada e Richard, giovani bellissimi destinati a innamorarsi.

La trama ha come sfondo il protrarsi infinito della causa, sul quale si innestano le storie di numerosi personaggi che hanno a che fare con il tribunale in maniera più o meno diretta.

Oltre a Casa desolata e alla Corte di Giustizia, grande importanza ha Chesney Wold, antica magione della famiglia Dedlock che si rivelerà intimamente connessa alle altre.

Senza svelare i nodi principali della storia, la cui bellezza sta in colpi di scena più o meno inaspettati e nelle relazioni tra i vari personaggi che si articolano e si intrecciano tra loro, vorrei fermarmi su alcuni temi (senza nessuna presunzione di critica letteraria, per quella c’è già Nabokov nella prefazione al romanzo, tratta dalle sue lezioni di letteratura).

Casa desolata è un romanzo sociale: descrive la società inglese dell’epoca vittoriana, dopo la prima rivoluzione industriale. La situazione delle classi più povere sia in città sia in campagna è durissima mentre la nobiltà e le classi più abbienti restano indifferenti, arroccate nei loro privilegi.

Tra le pagine più toccanti ci sono quelle dedicate alle condizioni di vita dei bambini, spesso abbandonati a se stessi, orfani, costretti a lavorare, senza cure mediche o istruzione. Il figlio morto di Jenny, nella casa dei mattonai; i figli delle dame di carità come Mrs. Jellyby, ignorati a favore di remote popolazioni africane; il povero Jo, che non sa nulla ed è costretto a circolare, rifiutato da tutti, considerato meno di una bestia. La stessa Esther è una bambina infelice, cresciuta senza amore dalla madrina, una donna fredda che le rimprovera il fatto stesso di essere nata. Sarà la sua morte a cambiare la vita di Esther, affidata per conto dello studio legale Kenge & Carboy alla tutela di John Jarndyce che si prenderà cura della sua istruzione per farne la governante di Casa desolata e la dama di compagnia di Ada, la sua pupilla.

I personaggi di Dickens in genere non hanno una evoluzione nel corso della storia ma rimangono fedeli al ritratto iniziale che ne ha fatto l’autore. Fa eccezione Lady Deadlock, altera e annoiata gran dama, ammirata dal piccolo bel mondo, tormentata da un segreto del passato e fiera nel sopportarne le conseguenze. Uno dei personaggi che ho amato di più per la sua complessità, in contrasto con altri più monolitici. Anche il personaggio di Richard Carstone, cugino di Ada Clare, cambia più volte nel corso della narrazione mentre la ragazza rimane quietamente buona e affezionata per tutto il tempo.

È invece nei personaggi negativi che Dickens ci regala i ritratti migliori, quelli che più rimangono impressi: Krook e la sua malvagia gatta, lui un vecchio ubriacone che collezione cartacce, stracci e bottiglie e affitta camere alla povera gente; Joshua Smallweed, un usuraio consumato dalla cattiveria e dall’avidità, sempre pronto a schiacciare il prossimo e a gettare la qualunque alla moglie; Mr. Vholes, un avvocato che vampirizza Richard e lo sprofonda ancora di più nella causa Jarndyce contro Jarndyce; Hortense, cameriera personale di Lady Deadlock, dai tratti ferini, consumata da un odio rabbioso; Harold Skimpole, amico di John Jarndyce, che si professa un animo bambino per sfuggire alle sue responsabilità e abusare della generosità del prossimo; infine, sopra tutti, il temibile Mr. Tulkinghorn, impassibile avvocato di Sir Leicester Deadlock, collezionista dei segreti delle grandi famiglie e custode, con ogni mezzo, del loro onore.

Concordo con Nabokov nel dire che però la grandezza dell’autore sta nel creare immagini evocative. Il modo in cui descrive la nebbia che striscia e avvolge la città, infilandosi nella corte di Giustizia e diventando parte di essa, o il modo in cui la natura partecipa e fa da contrappunto agli stati d’animo dei personaggi, ora idilliaca, ora sferzata dagli elementi. Londra poi diventa una città vivida, fatta di strade strette, case dalle facciate severe o cieche, luci incerte, strade fangose, in cui i personaggi si muovono a fatica, vittime del gelo o del caldo torrido, soffocati dall’aria pesante nel respiro e nell’animo. Sembra che oggetti e animali, nelle parole di Dickens, assumano connotazioni umane, a volte più perspicaci delle persone che li circondano.

L’unica mia perplessità riguarda la figura di Esther, osservatrice attenta, instancabile nel cercare il bene del prossimo, restia ad ammettere le qualità che tutti le attribuiscono, ferma nell’affrontare con animo lieto ogni difficoltà. Forse la sua evoluzione sta nell’accettare la felicità che infine le si presenta? O è l’ennesima Pollyanna, la donna ideale che mai si lamenta e sempre si sacrifica per gli altri? Mi resta il dubbio, pensando anche che negli stessi anni venivano pubblicati romanzi come Jane Eyre (1847) e Shirley (1849) di Charlotte Bronte o Nord e Sud (1855) di Elizabeth Gaskell e all’inizio dell’Ottocento i romanzi di Jane Austen.

In effetti mi rendo conto che i romanzi inglesi di questo periodo sono stati a lungo tra i miei preferiti e forse anche per questo la lettura di Casa desolata mi è stata così cara, come tornare ai luoghi amati dell’infanzia ma con uno sguardo più maturo.

Casa desolata di Charles Dickens. Traduttore Angela Negro. Einaudi 2018, collana Einaudi tascabili. 920 pagine.

La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta

Finalista al Premio Calvino di quest’anno (edizione XXXVI) con il titolo La malinconia dei coralli, La sindrome di Ræbenson è stata pubblicata a novembre dai tipi di Atlantide edizioni, attirando subito l’attenzione per la complessità dei temi trattati e per l’originalità della scrittura.

Si tratta di un romanzo di difficile collocazione all’interno di un genere specifico. L’autore, Giuseppe Quaranta, lo definisce simile a un puzzle, facendo riferimento ai film di Lynch e Hitchcock, in cui la narrazione si sviluppa su più livelli di senso e coinvolge il fruitore (lettore o spettatore) in modo attivo, sfidandolo a individuare e raccogliere i vari indizi disseminati nell’opera. Questo, invece che rendere la lettura difficoltosa, aggiunge maggiore divertimento e permette a ciascuno di individuare riferimenti diversi, letterari e cinematografici, giochi di parole e piccoli enigmi, come il nome sconosciuto del narratore.

La storia prende avvio da una cena tra colleghi su una terrazza romana. In questa occasione il narratore partecipa alla prima manifestazione di un disagio psichico nell’amico Antonio Deltito, vittima di una amnesia circostanziata che lo turba in maniera profonda. Da questo momento le condizioni di Deltito precipitano e assistiamo alla comparsa di sintomi sempre più strani: un’eterocromia delle iridi, la perdita di ricordi circostanziati come se mancasse la registrazione solo di certi elementi, un filtro verde che si applica alla visione e, sopra ogni cosa, la convinzione di non poter morire, se non per un gesto anticonservativo. La sofferenza di Deltito è profonda e lui afferma di conoscere da quale malattia è affetto: la sconosciuta Sindrome di Ræbenson. La trama prosegue coprendo un arco temporale molto lungo e segue l’indagine del narratore alla ricerca della verità sui Ræbensoniani e che lo porterà a inserire la sindrome nel DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, culmine della sua carriera psichiatrica ma anche inizio di un precipitare collettivo degli eventi.

Il primo episodio accadde a Roma. Sono passati quasi trent’anni. Quella sera Elsa Maria Stella, la quale spesso apriva le discussioni con civetterie intellettuali, ci stava elencando alcune affascinanti locuzioni inglesi per definire un insieme di uccelli. Non so se avevamo bevuto a sufficienza per lasciarci turbare a quel modo dalla potenza delle parole. Suggeriva: murmuration of starlings per gli storni; unkindness of ravens per i corvi; a parliament of owls per i gufi; mentre a convocation of eagles stava per quella che anche noi chiamiamo convocazione di aquile. Antonio Deltito ci disse che erano inganni, depistaggi forniti dal linguaggio, come ne incontravamo nel nostro lavoro di psichiatri, aggiungendo che si poteva redigere una storia della psicoanalisi a partire dalle variazioni dei suoi termini. Il discorso finì per prendere una piega troppo astratta, nessuno si azzardò a fare altri commenti; e così, dopo quella parentesi, si parlò d’investimenti rovinosi e di amori finiti, come spesso avviene in fondo alle serate tra colleghi. Dal terrazzo di Elsa, gremito di rampicanti, potevamo osservare le cupole della capitale, i tetti del quartiere rischiarati dalla luna, le ronde dei pipistrelli. Un odore di piretro saturava l’aria. Qualcuno disse che Roma, questa città di conclavi e giubilei, non era fatta per un Ragnarök; che le si addiceva, dopo le conquiste marziali del passato, l’austera e prospera pace dei secoli. Nulla intorno lasciava pensare a qualcosa di diverso.

Giuseppe Quaranta, in modo provocatorio, inventa una sindrome che, pur nelle sue stranezze, non si discosta molto da alcune di quelle effettivamente presenti nel DSM nonostante la vaghezza dei sintomi o la mancanza di approfonditi studi scientifici. Diventa però soprattutto l’occasione per riflettere sul concetto di identità: cosa siamo noi senza i nostri ricordi, i ræben, che chi è affetto dalla sindrome rilascia e capta nell’atmosfera, perdendone la proprietà esclusiva? E cosa è l’uomo senza la morte che, per l’autore, rappresenta il culmine della vita, l’unica prospettiva dalla quale si possa dare significato a un’esistenza, tessendo le fila di una trama altrimenti sfilacciata e incoerente?

L’immortalità, sembra dirci l’autore, si accompagna alla sofferenza, in quanto chi ne è affetto è consapevole che la sua pena non avrà mai fine, anzi, diventerà un guscio svuotato dalla sua essenza, un vuoto simulacro.

Questa però è solo una delle possibili interpretazioni. Il romanzo di Quaranta pone molte domande ma non ci fornisce risposte univoche, piuttosto spunti di riflessione.

Interessante anche il pensiero sullo sviluppo scientifico che, invece che progredire secondo una linea retta, procede per salti di paradigma, andando a formulare una nuova visione del mondo che supera quella precedente, il tutto spesso a partire da un’idea considerata bislacca e osteggiata.

Il romanzo si compone di quattro parti e il testo è accompagnato da fonti iconografiche (foto, fotocopie, articoli di giornale o scientifici, riproduzioni di opere d’arte) che dialogano con la storia e la amplificano.

Elemento esotico che mi ha divertito è l’insistere sulla figura del pappagallo, che ritorna più volte nel testo in forme diverse, come simbolo, espressione artistica, riferimento letterario o semplice volatile. Un esempio di come Quaranta ami giocare con la scrittura e con il lettore, che non viene mai dimenticato o messo da parte, ma resta sempre interlocutore privilegiato.

Giuseppe Quaranta è psichiatra e questo è il suo primo romanzo. Aspetto, molto curiosa, il prossimo.

La sindrome di Raebenson (2023) di Giuseppe Quaranta (San Marzano,1982).
Edizioni Atlantide, collana Blu Atlantide, 2023, 272 pagine, romanzo.

Bonus track: di seguito, alcune foto della presentazione insieme all’autore a Padova, alla libreria Zabarella, che potete recuperare a questo link: https://fb.watch/p1dAhz3OiV/